Anche il moralismo di Abelardo è diverso da quello imperante all'epoca: Abelardo accorda all'introspezione un'importanza grande quanto quella che gli attribuiscono i mistici monastici, ma per lui la conoscenza di sé appare come un'analisi del libero consenso, grazie alla quale dipende dagli uomini accettare o rifiutare il peccato. Il peccato, che fa gridare a Bernardo "generati dal peccato, peccatori, noi generiamo dei peccatori; nati debitori, dei debitori; nati corrotti, dei corrotti; nati schiavi, degli schiavi...", è visto da Abelardo solo come una mancanza ("peccare è disprezzare il nostro creatore, vale a dire non compiere per Lui quegli atti ai quali riteniamo sia nostro dovere rinunciare per Lui") e reclama per l'uomo quel potere di consentire, quell'assenso o quel rifiuto dato alla rettitudine che è il centro della vita morale. Anche il teologo Abelardo, continuando l'opera iniziata da Anselmo di Laon volta a reclamare l'alleanza della ragione e della fede, apporta grandi novità, soddisfacendo all'esigenza degli scolastici che reclamavano ragioni umane e filosofiche nel campo della teologia ( "non si può credere a ciò che non si capisce ed è ridicolo insegnare ciò che né il docente né il discente possono afferrare con l'intelligenza"). Nell'ultima sua opera, "Dialogo tra un filosofo (pagano), un ebreo, un cristiano", Abelardo sostiene che né il peccato originale né l'Incarnazione avevano creato un'assoluta frattura nella storia dell'uomo e sottolinea quanto vi è in comune tra le grandi religioni monoteiste, indicando nelle leggi naturali, da ritrovare, gli strumenti per riconoscere in ogni uomo il figlio di Dio e nella tolleranza ciò che unisce gli uomini, ricordando a tutti che "vi sono molte case nella dimora del Padre".

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